L’ANGOLO DEL RICORDO – Dai fratelli Cervi a Joffa. Sette medaglie alla memoria e una storia sconosciuta
“Ad un certo momento l’Alda smise di urlare. Si sentiva come un materasso mentre lo stanno battendo. Capiva che lui avrebbe smesso solo quando l’avesse uccisa. Non sentiva più nemmeno il dolore, tanto erano state le botte. Alda sarebbe morta ammazzata, proprio quel giorno”…
…”e così all’alba del 25 novembre 1943, un plotone di militi circondò l’edificio, in parte incendiandolo ed al termine della sparatoria i sette fratelli, dopo essersi arresi, vennero catturati e condotti al carcere politico dei Servi a Reggio Emilia”.
Intervista al collega e storico Enzo Caputo
D. Il 28 dicembre del 1943 a Reggio Emilia vennero fucilati i fratelli Cervi. Cosa accadde?
R. Il 28 dicembre di 79 anni fa cadevano sotto il piombo repubblichino i sette fratelli Cervi. Era un’alba nebbiosa al poligono di Reggio Emilia e gli spari sembrarono rimbombare più forte quasi a rimarcare la morte di Gelindo, Antenore, Aldo, Ferdinando, Agostino, Ovidio ed Ettore. Quarantadue anni il più “vecchio” ventidue il più giovane. Con loro morì anche l’ex repubblichino convertito all’antifascismo Quarto Camurri. Questa esecuzione segnò l’esordio stragista della neonata Repubblica di Salò retta dalle armi naziste.
D. Chi erano i sette fratelli?
R. Antifascisti da sempre come il padre Alcide e la madre Genoeffa Cocconi, fin dallo scoppio della guerra accolsero nella loro abitazione i prigionieri alleati che riuscivano a fuggire dai campi di prigionia. Alla caduta del fascismo fecero una grande festa cucinando circa 10 quintali di pastasciutta offrendola a tutto il paese. La loro attività antifascista fu cosi palese che anche lo stesso Partito Comunista restò tiepido giudicandola, in quel momento, troppo spinta in avanti. Dopo una breve esperienza in montagna decisero di tornare in pianura per mantenere i collegamenti con i primi nuclei partigiani che via via andavano formandosi, nascondendo le armi e diffondendo la stampa clandestina. I fascisti però non stettero a guardare e così all’alba del 25 novembre 1943, un plotone di militi circondò l’edificio, in parte incendiandolo ed al termine della sparatoria i sette fratelli, dopo essersi arresi, vennero catturati e condotti al carcere politico dei Servi a Reggio Emilia dove furono successivamente fucilati. Erano le 6,30 del 28 dicembre 1943. A loro nell’immediato dopoguerra vennero concesse dal Presidente della Repubblica sette medaglie.
D. – La storia dei Fratelli Cervi non fu ovviamente un fatto isolato e la scia di sangue nella penisola continuerà per quasi un anno e mezzo. C’è qualche episodio particolare?
R. Non starò a fare elenchi, sarebbe lungo. Una storia però quasi sconosciuta, mi ha colpito quella di Giuseppe della Casa detto Joffa segnalatami da Ermanda Berselli Bucci di Modena e che va riportata così come l’ha scritta un lontano nipote Giamluca Bellentani passato purtroppo a miglior vita. Una storia con diverse chiavi di lettura che comunque convergono in una: l’insofferenza e la ribellione alla violenza.
Buona lettura “ Il prozio Giuseppe Della Casa, detto Joffa. Era il fratello della bisnonna Alda, la nonna paterna della mia mamma. Abitava a Portile, una piccola frazione di Modena sud. Aveva un fisico da atleta, alto oltre 1,80, tutto muscoli e senza un filo di grasso, spalle larghissime, mani grandi come badili ed un portamento signorile. Della famiglia dei Della Casa era quello più abbiente, essendo uno stimato e preciso mastro muratore, che veniva chiamato in tutti i cantieri per dirigere e sorvegliare i lavori. Amava i figli e i bambini in genere, che con lui giocavano e si divertivano. La mia mamma andava spesso da lui, quando la bisnonna doveva andare a Modena e l’Argia sapeva di lasciarla in mani sicure. Per capire quanto amore avesse per i figli, basterebbe ricordare quello che accadde nel 1919. Aveva 39 anni quando la moglie morì di spagnola e lui rimase vedovo, con 3 figli. Vista la sua condizione economica e il suo bell’aspetto, avrebbe trovato chi voleva. Altri al suo posto avrebbero magari sposato una bella e giovane donna oppure una bella vedova con figli propri, ma Joffa sapeva che sarebbero potuti nascere figli di secondo letto o che la matrigna avrebbe magari potuto fare differenze trai figli propri e gli altri. Si risposò quindi con una donna della sua età, l’Artemisia, una zitella piccolina e poco attraente, che davanti alla bellezza del marito scompariva, ma che amava i bambini e allevò quei 3 figli come se li avesse generati lei.
Come tutte le persone di animo buono, Joffa aveva però una cosa che non riusciva davvero a sopportare: la prepotenza dei più forti sui più deboli. Questo davvero lo faceva andare in bestia e la sua rabbia scoppiava. Era però una rabbia lucida e per questo molto pericolosa. In famiglia, quello che ne fece le spese fu suo cognato, Domenico, il mio bisnonno, marito dell’Alda. Trai due non correva buon sangue: Joffa aveva più volte cercato di convincere la sorella a non sposare quel romagnolo sanguineo, violento e puttaniere ma la bisnonna era una Della Casa e come tutti quelli di questa razza, fece di testa sua e lo sposò. Si vide già dopo i primi anni di matrimonio che Joffa aveva ragione. Domenico spendeva tutti i soldi che guadagna in donne e bagordi e in casa non dava nulla, tanto che era la bisnonna a provvedere alla casa e ai figli, lavorando come un mulo di giorno e arrivando persino a rubare la notte nei pollai per poter sfamare i figli. Oltre a questo, Domenico la picchiava, e di brutto. La bisnonna però non stava certo a prenderle e si ribellava con graffi e pugni o alla peggio correndo via. Più volte Joffa aveva incontrato la sorella in paese, magari con un occhio nero o zoppicante e intuiva cosa le facesse il marito; e quando le chiedeva cosa fosse successo, lei inventava sempre qualche scusa. Un giorno però, una di quelle ormai quotidiane liti degenerò. Domenico ubriaco e fuori di sé, corse dietro alla moglie per picchiarla. La bisnonna, vedendolo tanto furioso e fuori di sé, scappò per il cortile ma le si ruppe uno zoccolo e cadde a terra, battendo il petto e rimanendo senza fiato. Domenico le fu addosso e cominciò a tempestarla di pugni e calci.
La bisnonna urlava ma abitavano in campagna e nessuno sentiva. Si raggomitolò vicino al muro ma lui continuò a batterla ancora più forte. Ad un certo momento l’Alda smise di urlare. Si sentiva come un materasso mentre lo stanno battendo. Capiva che lui avrebbe smesso solo quando l’avesse uccisa. Non sentiva più nemmeno il dolore, tanto erano state le botte. Alda sarebbe morta ammazzata, proprio quel giorno: ma non era ancora giunta la sua ora. Per puro caso, passò di lì Joffa, che doveva andare a visitare un cantiere. Quando passò, vide la sorella raggomitolata a terra e il marito che la pestava. Il prozio mollò a terra la bicicletta e corse verso i due. Domenico nella sua foga violenta non lo sentì arrivare ma tutto d’un tratto si sentì sollevato in aria, preso per il collo della camicia e quando quella forza lo fece voltare, si trovò davanti il cognato, che lo teneva sollevato con una sola mano a un metro da terra. Joffa lo guardò fisso negli occhi e gli disse in dialetto, con una voce calma e fredda: “Questa è l’ultima volta che tocchi mia sorella. La prossima volta che lo farai, o che imparo che hai alzato le mani su di lei, io ti uccido. Non è una minaccia la mia ma una promessa. Sai chi sono e sai che ho una parola sola. Io non ho paura e la prossima volta ti uccido”!!
Probabilmente quelle parole ebbero un certo effetto su Domenico, che da quel giorno non toccò mai più la bisnonna, nemmeno a letto. Poteva un uomo come il prozio avere una qualche simpatia verso i fascisti? Certo che no anzi, li detestava, i fascisti più ancora del fascismo in sé.”
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