Nella ricorrenza di San Camillo, patrono della Sanità Militare, non potendosi essa celebrare come di consueto con tutti i Soci e gli invitati per via del divieto di assembramento e di tutte quelle restrizioni dovute alla pandemia coronavirus, il Presidente della Sezione provinciale di Messina, Gr.Uff.Dr. Angelo PETRUNGARO, ha voluto ricordare il San Camillo de Lellis fondatore dei Chierici regolari ministri degli infermi, i cosiddetti Camilliani, il quale, pur essendo nato nel lontano 25 Maggio 1550 e morto nell’ altrettanto lontano 14 Luglio 1614 è stato proclamato Santo da Papa Benedetto XIV più di un secolo dopo nel 1746 ed è patrono universale dei malati, degli infermi e degli ospedali, nonché della Regione Abbruzzo sua terra natale e della Sanità Militare visto il suo avvio alla carriera militare da parte del padre.
Ma non solo il Santo Patrono ha ricordato il Presidente, anche gli operatori di Sanità Militare, Ufficiali Medici, Sottufficiali, Graduati e Militi, consapevole che il Medico tra le raffiche di morte riaccende la Vita.
Numerosi sono gli episodi che testimoniano lo spirito con cui lavorano Medici, portaferiti e semplici soldati di Sanità fedeli al motto “ Fratribus ut vitam servares” e a quello “Arma pietati cedant”.
Quest’ultimo concetto è stato attuato pienamente dal Tenente di Vascello Salvatore Todaro, Comandante del Sommergibile “Cappellini”, allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale quando, destinato nell’Oceano Atlantico, attraversa tra i primi lo Stretto di Gibilterra. Al largo delle isole Canarie il 15 Ottobre 1940, alla vista di un piroscafo non può lasciarselo scappare deve colpirlo e lo colpisce.
Alla vista di ciò che succede sul piroscafo al segnale del “Si salvi chi può” il Comandante del “Cappellini” attende che le operazioni di salvataggio vengano effettuate e in seguito va addirittura alla ricerca dei naufraghi per salvarli. Dopo due giorni dall’affondamento del Kabalo, questo il nome del piroscafo colpito, i ventisei superstiti sono tutti sistemati a bordo del “Cappellini”.
Di contro a questo comportamento, a dir poco, singolare nell’ottica dell’ortodossia militare, c’è quello del non rispetto delle più elementari norme del Diritto umanitario nei riguardi perfino delle Navi Ospedale.
Nel corso della Seconda Guerra Mondiale la Regia Marina aveva armato decine di Navi Ospedale trasformando mercantili o piroscafi non solo dotandoli di posti letto, congrue attrezzature sanitarie e Personale medico, ma ridipingendoli con scafo e sovrastrutture bianche, fasce verdi interrotte da croci rosse sullo scafo e croci rosse sui fumaioli. Esse in totale erano diciotto di cui dodici sono state affondate con relativo equipaggio e passeggeri perché colpite da siluri lanciati da aerei inglesi o americani pur essendo protette dalle Convenzioni internazionali dell’Aia e di Ginevra.
Queste navi non fanno in tempo ad essere varate che avviene il primo scontro in mare, fra Italia ed Inghilterra nelle acque del Mar Ionio a Sud-Est di Punta Stilo (RC) il 9 Luglio 1940 tra la Regia Marina italiana e la Royal Navy britannica, i cui feriti furono trasportati a Messina negli Ospedali Militari ed in quello della Croce Rossa.
Fatti accaduti ce ne sono tanti, ma basta citarne alcuni.
La Nave Ospedale “Po” affondata il 14 Marzo 1941 a Valona (Albania) colpita da aerei inglesi. Su di essa erano imbarcate crocerossine di cui tre morirono e ad esse venne concessa alla memoria la Medaglia d’argento al V.M. Una morì dopo alcuni mesi avendo inghiottito acqua e nafta nell’affondamento. Sulla “Po”era presente, sempre come Infermiera Volontaria Edda Mussolini, sposata Ciano, che si salvò. La Nave Ospedale “Gradisca”, entrata in servizio nell’Agosto del 1940, compì molte missioni ed essendo la più veloce tra le cosiddette “Navi Bianche” italiane, fu quella che prestò soccorso ai sopravvissuti della Battaglia di Capo Matapan nel Peloponneso il 28-29 Marzo 1941 durante la quale la Regia Marina aveva subito una grave sconfitta.
I feriti di questa battaglia furono sbarcati a Messina e condotti nell’Ospedale Militare della Regia Marina “Regina Margherita” e in quello della “Croce Rossa”, mentre i corpi recuperati e quello del naufrago deceduto a bordo vennero tumulati nel Sacrario di Cristo Re. Un altro esempio è quello della Nave Ospedale “Arno” colpita nel Settembre 1942 da un siluro lanciato da un aerosilurante britannico nonostante fosse bene illuminata, mentre era in navigazione per raggiungere Tobruk. Ancorata nel porto di Napoli, nel Dicembre dello stesso anno, subì un bombardamento aereo sempre da parte inglese. Essa aveva compiuto diverse missioni a cominciare dalla prima, nell’Agosto 1940 in Libia. Era stata anche di aiuto all’Afrika Korps del Generale Rommel.
Ma quello che è successo ai prigionieri italiani sul piroscafo armato inglese “Laconia” è inenarrabile. Esso, salpato da Suez la sera del 12 Agosto 1942 con Ufficiali e Militari inglesi e polacchi, oltre che donne e bambini, aveva a bordo chiusi nelle stive 1800 prigionieri italiani, molti dei quali siciliani, catturati ad El Alamein. I loro carcerieri erano soldati polacchi che badavano a tenere serrate le cancellate delle stive, anche se il caldo era opprimente, anzi sparavano su chiunque tentasse di forzarle.
Come se non bastasse, a un mese esatto dalla partenza, il 12 Settembre, il “Laconia” viene silurato, per ben due volte, da l’ U-Boot 156. A questo punto si può immaginare quel che succede sul piroscafo colpito. Infatti, nonostante il ferreo controllo, alcuni prigionieri riescono a sfondare le grate e a gettarsi in mare dove, quando si aggrappano alle scialuppe, vengono loro mozzate le mani.
Il Comandante del Sommergibile, Hartenstein, subito fa salire a bordo due naufraghi e, accorgendosi che sono italiani, informa il Comando Supremo dei Sommergibili tedeschi a Parigi dove l’Ammiraglio Doenitz non solo approva l’operato di Hartenstein quando gli scrive che su 1500 prigionieri italiani ne ha ripescato fino a quel momento 90, ma organizza i soccorsi dei naufraghi allertando due altri sommergibili tedeschi e uno italiano il “Cappellini”, oltre le tre unità di superficie inviate da Dakar dove i Francesi hanno acconsentito all’opera di salvataggio.
Dei 1800 prigionieri italiani imbarcati ne furono salvati solo 450, gli altri sono stati pasto per gli squali. I naufraghi italiani salvati raccontarono all’equipaggio del “Cappellini” che il Comandante del Sommergibile che aveva silurato il “Laconia” ha fatto stendere sul cannone di prua un lenzuolo bianco con la Croce Rossa e che nonostante questo simbolo, un quadrimotore americano ha lanciato due bombe.
Al Processo di Norimberga tutti i documenti radiotelegrafati furono esaminati, ma la problematica si ridusse ad un mero calcolo matematico: su 1800 italiani tra Ufficiali, Sottufficiali e soldati, 1350 erano morti. Il “Cappellini” per i naufraghi del “Laconia” fu “un ospedale senza medici”, infatti tutto l’equipaggio si prodigò a medicare i feriti, a confortare e a rifocillare gli scampati.
Dr. Angelo Petrungaro