Nel tempo della tecnologia, della modernità, delle testimonianze che richiedono verifica diretta, spesso ci ritroviamo a perdere pezzi della nostra storia che a fatica arrancano grattando nella memoria sepolta, dall’età, dei nostri nonni. Eppure un tempo neanche troppo lontano si viveva di racconti orali, tramandando storie di generazione in generazione.
“U cuntu” come direbbero gli anziani, affidato al cantastorie di turno nella piazza di paese tra agrumeti ed olivi. Essendo l’uomo un mirabile viaggiatore e venendo dunque a contatto con una varietà cospicua di luoghi e culti, fungeva da tramite affinchè quanto appreso potesse propagarsi qui e lì. Ma mischiandosi con storie diverse, ambientazioni fantasiose, adattandosi al nuovo luogo di orazione, risulta difficile stabilire con sicurezza l’esatta provenienza di una leggenda e spesso il vanto di una possibile paternità supera di gran lunga il fatto reale.
Il nostro territorio, tuttavia, pullula di storie e leggende la cui conoscenza è necessaria, affinché il patrimonio antico che ci riguarda non vada perduto. Iniziamo questo lunedì.
Quanti di noi conoscono la leggenda-mito di Cola pesce?
Alcuni autori gli danno natali relativamente recenti, ritenendolo vissuto nel periodo del Regno dell’imperatore Federico Il di Svevia. Giovanni Meji è tra costoro:
– Conosciutu è in Sicilia l’anticu nomu di Cola Pisci, anfibiu natu sutta di lu secunnu Fidiricu. Omu in sustanza ben proporzionatu, pisci pri l’attributu singulari di stari a funnu cu li pisci in mari.
Un’ultramillenaria leggenda pretenderebbe, invece, che Cola Pesce fosse un antichissimo mito, che risalirebbe addirittura alla caduta di Troia, e che sarebbe stato padre e marito delle dolcissime, quanto pericolosissime Sirene.
Sia l’una sia l’altra ipotesi affermano l’eterno legame simbiotico dell’uomo di Sicilia con il mare e che irrimediabilmente Cola Pesce rappresenta il rinnovarsi di questo veritiero rapporto, che è, alla fine, la conferma della dipendenza della vita dall’acqua, sostanza che avvolge l’essere umano sin dalla sua concezione, come liquido amniotico.
“Di Nicola Rizzo Missina n’è china, ma di Cola Pesci sulu unu n’avimu”, recita un’antica filastrocca messinese.
Nonostante ne esistano circa diciotto versioni si concorda che, anche se con qualche distinguo in relazione al luogo di nascita(tra le possibili alternative anche Arno, contrada di Mirto)le gesta di questo essere leggendario si svolgevano nel mitico mare dello stretto di Messina, nel periodo in cui regnava Federico II di Svevia, intorno al 1230. Una delle rielaborazioni più illustri è quella di Italo Calvino.
Cola, diminutivo di Nicola, era l’ultimo nascituro di una famiglia di pescatori. L’amore incondizionato per il mare, lo portava a esplorarlo fin nei fondali per carpirne le meraviglie nascoste. Si narra che fosse in grado di risiedere maggiormente in mare che sulla terra ferma facendosi ingoiare da grossi pesci ai quali, quando voleva, spaccava il ventre con un coltello in modo da ritrovarsi fuori, pronto a seguitare le sue esplorazioni. Una volta egli tornò dal fondo recando alcune monete d’oro e continuò così per parecchio tempo, finché ebbe recuperato il tesoro di un’antica nave affondata in quel luogo. Rinnegava il mestiere di famiglia, rigettando in mare i frutti della pesca paterna. La perfetta simbiosi tra Cola e i pesci suonava a stranezza per i più, che col tempo finirono con l’aggiungere al seguito di Cola il termine di Pesce. Dell’esistenza di quel “folle” ne venne informato Federico II di Svevia che a largo delle coste messinesi volle mettere alla prova le capacità del giovane. Gettò dunque una coppa d’oro in mare chiedendo a Cola Pesce di riportargliela. Dopo alcune ore il ragazzo riemerse con la coppa regale ed il re, stupito per quanto accaduto, chiese che gli venisse raccontato tutto ciò che aveva visto, prendendo il giovane al suo seguito.
Cola Pesce raccontò di animali terribili, insidie pericolose e voragini improvvise suscitando l’interesse e l’ammirazione di Costanza, figlia del re.
La curiosità degli uomini, tuttavia, non fa che incrementare la sete di conoscenza, e così Federico II, facendo leva sull’orgoglio del giovane, chiese a Cola Pesce di scoprire per lui come era fatto il fondale di Sicilia e su cosa poggiasse la Sicilia stessa.
Gettò dunque la sua corona ed attese il riemergere di Cola. Passarono due giorni prima che il giovane riemerse, alimentando la preoccupazione di Costanza, consumata, ormai, dal quel sentimento improvviso per il giovane. Cola Pesce, con l’aria intristita e la corona del re in mano, raccontò che la Sicilia poggiava su tre colonne, due ben stabili, l’altra sita tra Messina e Catania, consumata dal fuoco.
Ma le due mirabili imprese non erano sufficienti affinchè si mostrasse il valore di Cola Pesce ed il sovrano volle sapere com’era fatto questo fuoco pretendendone un poco per poterlo vedere. Costanza ritenne inutile questa ulteriore prova, e Cola rispose che non poteva portar il fuoco nelle mani, che la richiesta era di per se assurda.
In questo esatto momento della storia ecco ribollire, nell’animo di Cola e Costanza, un altro fuoco. Impossibile da domare, da placare o modificare. Impossibile da nascondere. Il fuoco dell’amore. Ma come poteva un pover uomo a servizio del Re ambire alla mano di una principessa? Persi l’uno negli occhi dell’altro, la sofferenza di un amore improvviso e impossibile fu interrotta dallo sdegno del re.
Come poteva del fuoco ribollire in mare? Gettò dunque l’anello di Costanza e Cola Pesce, vedendo la sua principessa intristita si gettò in mare.
La tradizione qui si alterna tra diverse varianti. C’è chi racconta che Cola portò con sè un sacchetto di lenticchie affermando che qualora fossero tornate a galla lui non sarebbe riemerso; chi invece narra che dopo giorni di attese a galla si intravide una macchia di sangue; chi sostiene che la stessa Costanza si gettò in mare per seguire l’amato.
Di una cosa siamo certi. Presso Capo Peloro Cola Pesce non riemerse più.
Molti sostengono che sia rimasto in fondo al mare, con o senza Costanza, a sorreggere la colonna oramai distrutta e proteggere la Sicilia dalla sua distruzione. Molti altri hanno interpretato il significato dei 3 oggetti d’oro: la coppa rappresentava il denaro; la corona il potere; l’anello l’amore.
E come ogni storia che si rispetti, lui per amore, in questo caso, della Sicilia sacrificò la sua vita.